mercoledì 10 ottobre 2012



ARTURO



Passare attraverso l'opaca, lucente barriera di energia fece vibrare la placca di fibracciaio celata sotto la mia spalla destra, ricordandomi per un fugace momento, come sempre succedeva, gli orrori della battaglia alle porte di Tannhauser.
Quindi dalla silenziosa, bianca asetticità del corridoio verde 17, della base spaziale Spazio Profondo 9, mi ritrovai nel caotico, rilucente, speziato, fumoso coacervo di umanità e alienità della Cantina di Mos. Come d'abitudine feci un solo passo in avanti, quindi mi fermai. Con un rapido ma profondo sguardo percorsi l'intero locale, valutando in pochi istanti tutti i presenti e catalogandoli mentalmente per grado di potenziale minaccia. Infine mi avviai lentamente, attraverso i numerosi e curiosi tavolini intagliati da singoli blocchi di cristalli di quarzo colorati di Altair Quarto, verso il bancone principale.
Quello che ai più sarebbe parso un tragitto casuale, era invece stato scelto con cura per poter passare alla giusta distanza ed osservare meglio quelle tre creature, tra le numerose del locale, che al primo sguardo potevano rappresentare un eventuale pericolo. Non ero sopravvissuto per trent'anni come cacciatore di taglie Pangalattico senza rendere istintivo lo studio costante di ogni luogo in cui mi trovavo.


Superai lento alcuni tavoli occupati da piccoli gruppi di Stanziali, probabilmente in turno di riposo, incurante degli sguardi, spesso carichi di provocanti inviti, che ogni femmina, umana e non scoccava al mio passaggio. Ero ormai abituato al fascino che il mio aspetto e il mio mestiere esercitavano da sempre sugli esseri di sesso femminile di ogni luogo della galassia in cui mi ero trovato.
Mi approssimai quindi al primo soggetto a rischio, un Gamorreano dal muso porcino che stava oscenamente bevendo un gigantesco boccale di azzurra birra romulana. Questi orridi alieni comprendevano poco oltre la violenza e l'avidità e potevano causare spaventose risse per un nonnulla, soprattutto se ubriachi. Il guaio è che lo erano quasi costantemente.
Uno sguardo più ravvicinato al fulminatore lucido e nuovo che portava alla cintola, e agli artigli limati e dipinti lo identificò senza dubbio come una guardia del corpo di qualche spaziale, quindi ben scarso pericolo, visto che solo i più codardi o disperati di quella razza di guerrieri si riduceva a fare il custode.
La seconda potenziale minaccia era appollaiata su un piccolo cubosedile accanto ad uno dei tavolini bassi per razze mignon. In verità pochi, forse nessuno in quella sala avrebbe considerato una minaccia quel piccolo, peloso similorsetto, alto poco più di un metro e con grandi e neri occhioni dolci che sembrava felicemente impegnato a strafogarsi di tondi dolcetti glassati. Io però avevo visto una volta uno Yoghiano furioso, e il veleno mortale che può sgorgare dai suoi piccoli sottili artigli è in grado di uccidere un elefante in pochi istanti. Poi notai i piccoli, sottili ciuffi argentei sulle basette. Sorrisi tra me scuotendo la testa e proseguii pensando che a volte ero fin troppo paranoico, era solo una femmina, quindi priva di ghiandole velenifere.
Giunsi infine al bancone. Mi sedetti su un alto sgabello, non lontano dalla pedana su cui una semiumana di Ganimede, praticamente nuda, stava lascivamente volteggiando intorno al lucido palo trasparente che si innalzava dal centro del suo piccolo palcoscenico.
In realtà non ero particolarmente interessato allo spettacolo, anche se, grazie all'utilizzo di due cilindrici vermi-simbionti di Vega, stava per diventare estremamente erotico, ma da quella posizione potevo osservare di fronte, a non più di dieci passi l'ultimo possibile pericolo.
Per la verità non era l'aspetto di quell'aliena azzurra, di una bellezza sconcertante, che aveva fatto scattare il mio sesto senso. Erano stati i due ampi bracciali, all'apparenza in lucido rame verdastro, che indossava con tale naturalezza. Erano almeno dodici anni che non vedevo dei lamabracciali Kashykkiani. Quegli apparentemente innocui gioielli potevano mutare al solo pensiero dell'utilizzatore in una coppia di lunghe e affilate vibrolame, capaci di perforare come burro persino una corazza di duracciaio. Il loro valore superava abbondantemente quello dell'intero locale in cui ero appena entrato, personale e clienti compresi.
Ordinai un govos eye con doppio babalot al barista e notai che i penetranti occhi bianchi dell'aliena erano ora fissi su di me. Ricambiai lo sguardo, cercando di scoprire qualcosa di più, sforzandomi di ricercare nella memoria qualche elemento per rammentarne o identificarne la specie.
Aveva pressoché un aspetto umanoide. Alta, con un seno imperioso e un corpo mozzafiato, che l'aderente tuta di rettile rivelava quasi completamente. La pelle aveva una tonalità lievemente azzurra, il lungo collo era fasciato da un sottile collare metallico di una sfumatura ramata. Aveva sottili orecchie lievemente puntute, una bocca carnosa, lucida nel suo colore blu intenso e decisamente desiderabile, corti e sottili capelli rosso tiziano e due incredibili occhi ghiaccio, che rendevano veramente difficoltoso allontanare da loro lo sguardo.
Ma fu quando le osservai le mani, mentre sollevava un lungo calice di liquido ambrato che ebbi la folgorazione. Le sei lunghe, affusolate dita della mano mi rammentarono il vecchio racconto di un mercenario Sullustiano, non poteva che essere un'Arturiana.
In verità si sapeva ben poco dei nativi di Arturo, un semisconosciuto pianeta del margine, ben oltre le più frequentate rotte commerciali. Non ne avevo mai visto uno, e nemmeno conoscevo chi l'avesse fatto, a parte quel vecchio mercenario diversi anni prima. Famoso però per le colossali panzane che dilagavano dalla sua bocca, specialmente dopo alcuni bicchieri di Grog.
Rammentavo per la verità ben poco del racconto, a parte quel particolare delle sei dita. Un caso unico nello spazio conosciuto, dove il numero abituale delle appendici degli arti delle specie senzienti è praticamente sempre in numero dispari. Inoltre c'era qualcos'altro nel racconto, parlava degli abitanti di Arturo come dotati di una qualche incredibile e unica caratteristica, ma che al momento proprio non riuscivo a ricordare.
Il problema più pressante era però chi fosse in realtà quella giovane aliena dotata di tali bracciali in quel fetido locale. Solo tre generi di persone potevano permettersi un simile lusso, nobili di qualche vecchia dinastia pangalattica, grandi cacciatori di taglie, killer professionisti di immensa abilità.
Esclusi subito il primo caso, vista la sua razza. Per quanto riguardava il secondo, non ero a conoscenza di alcun ricercato di grande valore nel raggio di diversi parsec, dopo che io stesso avevo finalmente eliminato la minaccia di Flint, il bucaniere. Restava quindi l'ultimo, e vista l'insistenza con cui i suoi occhi mi studiavano non dubitai affatto di poter essere proprio io il potenziale bersaglio.
Nella mia vita avevo ormai accumulato un numero tale di nemici che sarebbe stato virtualmente impossibile tentare di capire chi potesse essere l'eventuale mandante. In verità quello era oltretutto il problema minore, il maggiore era come assicurarmi di impedirle di avere l'iniziativa e la sorpresa.
Come sempre nella mia vita decisi quindi di agire direttamente. Terminai con un lungo sorso il cocktail, afferrai con le dita il babalot rimasto sul fondo del bicchiere e tenendolo stretto perchè non sgusciasse via lo lanciai in bocca, assaporando per un attimo il suo dolce movimento sulla lingua, quindi lo schiacciai tra i denti gustando il suo tipico sapore di lampone.
 Lentamente mi alzai. Girai intorno al palco su cui la Ganimediana stava ora contorcendosi di piacere guidando i due verme-simbionti, che si allungavano e ingrandivano pulsando profondamente dentro di se, e mi avvicinai al tavolo dell'Arturiana.
Il suo sguardo non mi aveva mai abbandonato, e quando mi fermai proprio di fronte a lei vidi un lieve sorriso spuntare sull'angolo destro delle sue labbra. Un sorriso che poteva promettere un'incredibile notte di piacere sfrenato, oppure una rapida e inevitabile morte, se il suo pensiero avesse trasmesso ai bracciali l'ordine mentale di mutare.
Io avevo però il mio personale asso nella manica,  un rarissimo anello di energia arboreano. Un vecchio, munifico dono del principe Barin. Con una sola particolare contrazione del mignolo avrei potuto, in un infinitesimo istante, rilasciarne tutto il potere. Mi sarei così garantito per una decina di secondi uno scudo di energia imperforabile, persino alle vibrolame. Il problema era che l'anello funzionava solo una volta prima di divenire poi un inutile ammennicolo metallico e vista l'evidente impossibilità di procurarmene altri, almeno in questa vita, avrei dovuto essere quanto più cauto possibile.
Mentre riflettevo su tutto questo sfoderai il mio irresistibile sorriso e mi sedetti al suo tavolo, proprio di fronte a lei. Non fu per la verità una conversazione molto lunga, dopo un solo bicchiere e poche parole a condire un gioco di sguardi intensamente provocante ci alzammo, lei si strinse a me, insinuando il braccio sotto il mio, e così uscimmo dalla cantina diretti verso la mia stanza.
Indubbiamente faticai a mantenere un perfetto controllo della mente. Il suo profumo era così delizioso, ogni suo più piccolo movimento era la quintessenza della femminilità e sensualità. Nonostante la consapevolezza di rischiare in ogni istante un mortale duello ero ormai prepotentemente eccitato.
Quando la porta della mia stanza si chiuse dietro di noi, decisi di fare la mia mossa. La baciai appassionatamente. Le nostre bocche si fusero, le lingue si intrecciarono esplorandosi solleticandosi nel bacio più intenso mai provato. La sua lingua sembrava dotata di vita e pensieri propri, tanto si insinuava e muoveva rapida e profonda in me mentre le mie dita scivolavano lente lungo la sua schiena e si soffermavano su uno dei culi più sodi, pieni e deliziosi che avessi mai toccato prima.
Le sue mani mi strapparono la camicia, quindi mi slacciò abilmente la cintura, così che i miei pantaloni scivolarono a terra. Insieme con loro però anche il mio fido disgregatore e il pugnale che riposavano nelle loro custodie, attaccati alla cintura.
Dopo un tempo che sembrò quasi infinito mi staccai da lei. Lento mi girai, ormai indossando le sole mutande, apparentemente privo di qualsiasi arma, e, girandole le spalle, mi allungai verso il quadro comandi per inserire un leggero, sensuale sottofondo musicale.
Quello era il momento. In soli tre secondi avrebbe potuto affondare nella mia schiena nuda le lame. Attesi con trepidazione di udire il caratteristico sibilo di attivazione dei lamabracciali, che mi avrebbe dato giusto il tempo di attivare lo scudo e quindi fulminarla afferrando la pistola a terra.
L'attimo venne, e passò.
La musica iniziò a diffondersi nella stanza, e sentii non le fredde mortali lame ma le sue calde, lisce e deliziose mani scivolare lungo la mia muscolosa e abbronzata schiena, per poi percorrere il mio petto. Si soffermò a lungo a stuzzicare con le unghie i miei capezzoli, mentre le sue labbra, la sua lingua si impadronivano del mio collo e della mia nuca in maniera decisamente inebriante.
Decisamente mi ero preoccupato troppo ed inutilmente, pensai, mentre Maya, così avevo scoperto chiamarsi quella meravigliosa creatura, in ginocchio di fronte a me, dopo avermi liberato anche dell'intimo, stava baciando e succhiando con una abilità passione indescrivibile.
Ecco quale poteva essere quella misteriosa particolarità degli Arturiani, che non riuscivo a rammentare, una bocca dalle capacità amatorie ineguagliabili. Perso nel piacere assoluto non riuscii a fermarla e venni copiosamente, in un tempo per me insolitamente breve, mentre la sua bocca non smetteva di condurmi in paradiso e le sue unghie disegnavano sinuosi ed eccitanti arabeschi sulle mie gambe e sul mio sedere.
Quindi si alzò, e mi baciò nuovamente a lungo, mentre si abbassava l'aderente tuta sui fianchi, rivelando due piccoli sodi e deliziosi seni, sui cui capezzoli blu, visibilmente eccitati si gettò fremente la mia bocca. Lei intanto mi baciava e mordeva il collo, mi stringeva le braccia affondando le unghie nella mia carne, preda evidente di una feroce animalesca eccitazione.
Mi spinse verso il letto, gettandomi su di esso a pancia in giù, e iniziando ad accarezzarmi la schiena, il sedere, le gambe, mentre la sua bocca percorreva lenta, umida, stuzzicante tutto il mio corpo, baciando e mordicchiando con feroce passione.
Ero ormai preda di un estasi incredibile. Vidi con la coda dell'occhio la sua tuta leggera  volare via verso la parete e sentii il suo corpo caldo e liscio contro di me e le sue sottili, agili gambe sfregare perversamente le mie.
La sua lingua infine si insinuò tra le mie gambe, stuzzicando e lambendo il mio intimo così lussuriosamente da farmi perdere completamente la ragione. Desideravo solo possederla, prenderla ripetutamente, affondare dentro di lei fino a perdere il senso del tempo.
Fu in quel momento che giunse così inaspettato il dolore.
La sentii forte, prepotente perforare il mio corpo. Un urlo uscì dalle mie labbra mentre lei mi stringeva forte, mentre la sua bocca baciava e mordeva il mio collo e l'orecchio sinistro, sussurrando il mio nome, Jonathan, insieme a qualcosa di intelligibile.
E fu in quell'attimo, quando era ormai così saldamente e inesorabilmente dentro di me, che rammentai perfettamente, quasi si fosse accesa improvvisa una luce nella mia mente, il resto del racconto di quel mercenario, e la caratteristica così particolare degli Arturiani.
Sono tutti ermafroditi.

6 commenti:

  1. Finale mozzafiato anche il tuo... ;)

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    1. ahahah beh diciamo che nei miei racconti curo semmpre molto i finali ;)
      adoro finire in bellezza e con il botto :)

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    2. Uhmmmmm, finale autobiografico?

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    3. hahahaha c'è sempre molto di me nei miei racconti, quasi sempre... chissà ;)

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